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E’ recente la decisione dell’Ue di far entrare in vigore la Pac a partire dal 2015. Saranno dunque applicate delle misure transitorie per il 2014 per garantire gli aiuti ai produttori agricoli europei. In sostanza non cambierà nulla?
“Questo corrisponde ad una posizione di Confagricoltura nella non fissazione del budget agricolo (inserito in un più ampio budget europeo).
Riteniamo che la politica agricola comunitaria debba essere conseguente alla quantità di risorse che la comunità intende destinare. Quindi se non sappiamo con certezza a quanto ammonta la dotazione finanziaria che ci spetta, non possiamo programmare le politiche. In soldoni, se non so quanto denaro ho in tasca, non posso programmare il mio livello di spesa.
Se alcune misure sono possibili e convenienti con una dotazione finanziaria di 6,2 miliardi di euro, diventano invece secondarie con un budget inferiore.
La decisione della Ue di far entrare in vigore la Pac nel 2015 non cambia niente o anzi migliorerà l’agricoltura di certe aree, perché per questi anni di rimando, ci sarà la Pac adeguata dell’1% e quindi non subiremo le decurtazioni relative al greening e alle misure di corollario”.
Quali sono invece gli aspetti negativi? Nella riforma era prevista l’introduzione di strumenti anti crisi, cosa accadrà ora?
“Confagricoltura ritiene da sempre che ci sia bisogno di una riforma della politica agricola comunitaria, che vada rivista la questione dei titoli e che si debba rimettere mano ad una politica agricola frutto del passato. La proposta Ciolos non ci soddisfa, nonostante siano state apportate delle modifiche, (molte delle quali vanno nella direzione da noi suggerita), perché non soddisfa l’Italia, non guarda infatti ad una prospettiva che crediamo debba essere incentrata sulla produttività.
Si potrebbe riscontrare qualche problema con i piani rurali, serve una norma di collegamento per questo periodo transitorio.
Certamente la parte più interessante della riforma della Pac erano gli strumenti anticrisi che sono prioritari rispetto ad altre misure. Proprio per questo, credo che sia meglio aspettare una buona riforma che averne una parziale che ci vedrebbe costretti a rivedere la programmazione”.
Avete costituito di recente il coordinamento “Agrinsieme” che per la prima volta raggruppa associazioni agricole e la cooperazione. Si tratta di un messaggio forte di unità rivolto soprattutto alla politica?
“Si. Vuole essere un segnale anche alle istituzioni in modo da abbandonare vecchie logiche e distinguo. Siamo organizzazioni volute dagli agricoltori e al loro servizio. Non dovremmo mai sopravvivere ai nostri associati.
L’organizzazione che non ha la capacità di cambiare, non interpreta bene il suo ruolo.
Oggi abbiamo bisogno di maggiore semplificazione della rappresentanza, improntata non solo ad una mera riduzione dei costi, ma soprattutto ad un modello tendente alla efficienza ed efficacia anche nei confronti della politica che troppo spesso ha approfittato delle divisioni tra organizzazioni, per non decidere o decidere in assenza di confronto. Offriamo un raggruppamento che può essere giudicato anche anomalo, perché ricomprende organizzazioni agricole e la cooperazione, ma alla fine, sono due facce della stessa medaglia.
Le 5 organizzazioni esprimono numeri importanti e maggioritari nel panorama, cui si aggiungono oltre le proposte politico sindacali, progetti concreti, documenti unitari su temi sensibili come la sburocratizzazione, l’atteggiamento nei confronti della Pac, del fisco e dell’Imu.
Vogliamo affiancare un’attività orientata alla progettazione per rendere la parte produttiva più efficiente ed aggregata. I macro progetti che partiranno sono una naturale evoluzione del piano cerealicolo nazionale che già vedeva la presenza delle 5 organizzazioni, per candidarsi a presentare i progetti di filiera licenziati di recente dal Ministero dell’Agricoltura con una dotazione di 90 milioni di euro. Siamo avanti nella progettazione dei cereali, vogliamo studiare e lavorare nel settore dell’ortofrutta portando un segnale di aggregazione in molte aree in particolare in Sardegna, nelle zone insulari e del centro Sud che non sempre hanno avuto buone esperienze in fatto di cooperazione. L’internazionalizzazione sarà un altro tema, come del resto, alcuni prodotti specifici come l’olio e gli agrumi.
Agrinsieme è una struttura snella e leggera con un coordinatore a turnazione, oggi il presidente della Cia Giuseppe Politi che è primus inter pares. Ogni organizzazione infatti, pur mantenendo la sua vocazione, fa uno sforzo di aggregazione sia in termini di proposta politica che di progetto”.
Cosa chiederete al nuovo Governo?
“Stiamo predisponendo in questi giorni un documento snello da presentare alle forze politiche che ha come presupposto il lavorare su alcuni temi come la semplificazione, il credito, il fisco, il mercato del lavoro e la green economy”.
Possiamo definire l’agricoltura un comparto economico anticrisi, visti i dati positivi sull’occupazione?
“Confagricoltura si vuole fare portatore di una ricerca sul reale peso del sistema agroalimentare complessivo, andando ad analizzare tutto l’indotto agricolo, compreso il packaging che serve per l’ortofrutta e le macchine e le attrezzature per l’agricoltura. Per arrivare a stimarlo e a rappresentare al nuovo Governo che si tratta di un settore vitale su cui investire.
Il know how anche in termini di macchine, nasce dalla vocazione agricola di questo Paese. L’agricoltura non concentra sotto un unico tetto centinaia di persone dato che i nostri operatori lavorano a cielo aperto, ma non per questo siamo meno importanti delle industrie blasonate.
Il livello di occupati parla chiaro. 1 milione e 100 mila persone accanto ad 1 milione di imprenditori agricoli rappresenta più del 10 % della forza lavoro di questo Paese. Oggi l’agricoltura va declinata in modi diversi, non solo va prodotta la materia prima ma è indispensabile la capacità di trasformarla e poi esportarla. Va messo a frutto l’ingegno italiano, il vero valore aggiunto. Il mercato italiano è diventato troppo piccolo per le nostre capacità produttive e non ci da sufficienti soddisfazioni. L’agricoltura è da sempre considerata un settore residuale ed è stata usata dalla politica in termini mediatici perché si è capito che i prodotti e i territori stanno a cuore agli italiani. Viste le potenzialità ancora inespresse, occorre che la politica ci restituisca il peso che meritiamo, per diventare un vero motore per lo sviluppo”.
Alla flessione del mercato nazionale interno le aziende compensano con l’export. Parola d’ordine l’internazionalizzazione?
“Il mercato mondiale si è molto segmentato e in questi ultimi 10 anni abbiamo vissuto della menzogna che recitava : “la qualità pagherà qualsiasi inefficienza e costo aggiuntivo che l’agricoltura può mettere in campo”. Ma non è cosi. Siamo capaci di produrre eccellenze che vanno in competizione con altre realtà. La Francia ad esempio, vanta ottimi formaggi e vini. Il made in Italy ha un suo valore ma occorre trovare i mercati in grado di remunerare i nostri prodotti. Va cambiato l’approccio, dobbiamo imparare ad usare la globalizzazione perché una nicchia può diventare una cattedrale. Il nostro difetto è che pensiamo troppo in piccolo, al consumo domestico e al km zero e non ci rendiamo conto che il nostro vicino non si può permettere ogni giorno le nostre eccellenze. Le grandi catene di distribuzione mondiale (da Carrefour alle altre), chiedono una continuità di fornitura. Ecco perché Agrinsieme è determinante per creare aggregazione di prodotto e stare sul mercato”.
Un Brand unico Sardegna per prodotti agroalimentari potrebbe funzionare ?
“Il brand locale dovrebbe essere inserito nel brand Italia che è quello che vale nel mondo. Un eccessivo campanilismo e frammentazione, abbiamo imparato che non giova alla comunicazione. Il Nord Sardegna con la Costa Smeralda è molto conosciuta nel mondo ma non è detto che le zone interne abbiano lo stesso appeal. Presentarsi al mondo frazionati in una proposta di 24 regioni non è conveniente e forse non ce lo possiamo più permettere. Abbiamo perso il tempo. Occorre una forte sinergia tra le promozioni regionali – nazionali e un’ integrazione di comunicazione.
È una partita difficile ma le regioni dovrebbero impegnarsi di più, soprattutto quelle a statuto speciale”.
Le ricette anticrisi: agroalimentare e turismo ma non si può prescindere dalla ricerca e dall’innovazione. E’ d’accordo?
“Abbiamo ricerca e innovazione su grandi marchi commerciali di trasformazione del prodotto mentre sul sistema agricolo la partita è pari a zero nonostante si spendano circa 800 milioni di euro. La ricerca non è coordinata, non è in rete e non è finalizzata ai reali bisogni delle imprese.
Non sono più convinto che un sistema di ricerca meramente agricolo serva ancora. Molto spesso l’innovazione in agricoltura deriva infatti dalle nuove applicazioni portate da altri settori. Poi c’è il discorso antico del collegamento tra i bisogni dell’impresa e la ricerca che quando nasce dai laboratori senza scambio osmotico con l’impresa, non produce risultati utili.
Innovazione e tradizione non sono in contrasto, come dimostrano gli esempi del vino e dell’olio.
Il consumatore non acquisterà mai ciò che non gli piace. Dovremmo fare un piccolo sforzo per andare incontro ai gusti provenienti dal mercato che sempre comanda. Ad esempio i cinesi gradiscono un vino con un retrogusto dolce o più frizzante e noi dovremmo adeguarci soprattutto in questo contesto in cui le risorse pubbliche destinate al settore saranno sempre meno. Gli agricoltori devono aprirsi alle sollecitazioni provenienti dal mercato globale e comprendere che l’aggregazione è ineludibile per essere più efficaci”.
Il mondo agricolo sardo è stato messo in ginocchio dalle emergenze sanitarie. La peste suina africana che ha determinato il blocco delle carni sarde all’estero e di recente la recrudescenza, dopo 12 anni, della Lingua Blu. Se da una parte è necessario un cambio di mentalità, dall’altro non si può prescindere da una programmazione politica lungimirante?
“La Sardegna ha grandissime potenzialità perché fa produzioni molto particolari (pensiamo all’olio, al riso e alla carne suina), con standard qualitativi anche diversi da quelli che si producono nel resto d’Italia, ma spesso viene penalizzata. Serve un cambio di mentalità, un mea culpa è d’obbligo, ma le istituzioni devono fare la propria parte adottando un sistema di piani di sviluppo rurale che puntino a meccanismi premiali piuttosto che punitivi. La Sardegna si deve dare una strategia di politica agricola, occorre trovare soluzioni e lavorare in questa direzione”.
Altro grave problema per la Sardegna il sistema irriguo legato ai Consorzi di Bonifica. Non conoscendo ex ante i costi delle campagne è quasi impossibile per gli agricoltori effettuare una corretta programmazione.
“Oggi abbiamo strumenti e tecnologie che devono far parte della strategia dello sviluppo dell’agroalimentare sardo. Se l’irrigazione è un problema, va data priorità a questo tipo di investimenti che risolvano a monte il problema.
Un agricoltore gioca la sua partita di rischio sul mercato e sulle calamità naturali ma non può subire i danni che derivano dal malfunzionamento contabilizzato a posteriori che non consente lo sviluppo di un’agricoltura moderna e in grado di programmare gli investimenti. Si tratta di un tema che va affrontato e risolto”.
Il prezzo del latte non è ancora remunerativo. Gli industriali dettano le regole del mercato e fanno il prezzo?
“Manca una dimensione che ci consenta di confrontarci in modo paritario con gli industriali. Ci sono strumenti normativi che favoriscono il riposizionamento del potere contrattuale agricolo nella filiera. Dal Pacchetto Latte che favorisce l’aggregazione di nuovi tipi di OP all’art. 62 che parla di contrattazione scritta e dei tempi certi di pagamento.
Abbiamo contestato questo articolo in molte parti perché non vogliamo diventi un cappio. Ovviamente tra i temi che ci interessano, rientra il favorire il posizionamento dell’agricoltore.
Come organizzazioni che non detengono il prodotto, abbiamo fatto uno sforzo di portare il prezzo del latte a 40,5 centesimi nel periodo di Gennaio, Febbraio e Marzo. Oggi è opportuno lavorare sull’aggregazione della produzione. Ci sono players importanti che si comprano marchi italiani e finiscono con il determinare un prezzo che si riverbera in modo condizionante su tutte le regioni, compresa la Sardegna”.