Condividi
Condividi

di Francesco Bellizzi
Agroeconomista e professore ordinario di Economia circolare e Politiche per lo Sviluppo sostenibile all’Università di Bologna, Andrea Segrè è stato preside della facoltà di Agraria e direttore del dipartimento di Scienze e Tecnologie agroalimentari. È consigliere speciale del sindaco di Bologna per le Politiche alimentari
Con lo spin-off universitario Last Minute Market-impresa sociale, ha fondato la campagna Spreco Zero ed è il direttore scientifico dell’Osservatorio Waste Watcher International. Realtà con cui Confagricoltura collabora da tempo. Con lui abbiamo parlato di spreco e consumo alimentare, i temi che ha portato al convegno organizzato dalla Confederazione in Piazza della Repubblica, a Roma, per Agricoltura È.
Professore, qual è lo stato dello spreco di cibo in Italia?
L’Osservatorio indaga lo spreco e i comportamenti alimentari sin dal 2013. Le nostre misurazioni si fondano sull’analisi di un campione rappresentativo degli italiani stratificato secondo i parametri Istat. Dopo il Covid lo spreco domestico è tornato a crescere, nel 2025 vale oltre 8 miliardi di euro soltanto ciò che gettiamo via nelle nostre case: il rifiuto alimentare prodotto oltretutto va smaltito con un ulteriore costo economico e ambientale. Nel 2021 abbiamo reso internazionale l’Osservatorio iniziando a rilevare altri Paesi nel mondo.
A livello europeo siamo in media. Si spreca di più in Nordamerica, di meno in Giappone. È interessante la comparazione per capire le differenze, ma anche le misure di contrasto che funzionano. La prima è l’educazione alimentare nelle scuole: purtroppo nel nostro Paese, dove pure il cibo è o dovrebbe essere parte della cultura, non ci sono percorsi di educazione alimentare dedicati: nelle 33 ore dedicate all’educazione civica c’è poco spazio per l’alimentazione. Non è tuttavia solo un problema dell’Italia.
L’Agenda Onu per lo sviluppo sostenibile ha posto come obiettivo il dimezzamento dello spreco alimentare entro il 2030, è possibile?
È ancora possibile farcela, anche se siamo in ritardo, almeno per lo spreco. Per la povertà e la fame, che sono il primo e secondo obiettivo, credo ormai sia impossibile. I dati relativi a povertà e insicurezza alimentare a livello globale sono, anzi, in crescita. Per lo spreco alimentare invece, soprattutto in Italia, sarebbe ancora possibile. Con il nostro Osservatorio abbiamo il dato di partenza nel 2015, inizio dell’Agenda, e dunque sappiamo dove dobbiamo arrivare per diminuire del 50%. Il monitoraggio annuale ci aiuta a capire se siamo nella direzione giusta. Abbiamo stimato che sarà necessario ridurre lo spreco domestico pro capite di 50 grammi all’anno fino al 2030.
Per questo abbiamo lanciato una “sfida” alle famiglie italiane con la nostra applicazione Sprecometro, che consente di misurare lo spreco dal punto di vista economico e ambientale e aiuta a trovare dei rimedi proponendo dei consigli di educazione alimentare. Con un piccolo sforzo di consapevolezza ce la possiamo fare. Ma se non si misurano i progressi e non si danno gli strumenti è molto difficile ottenere qualsiasi risultato. Per questo obiettivo abbiamo realizzato lo Sprecometro, che permette a chiunque di ridurre lo spreco e adottare diete sane e sostenibili.
Cosa intende? Alcuni degli obiettivi Onu sulla sostenibilità non sono realistici?
L’impressione è che con l’Agenda Onu si stia facendo un gran lavoro, ma molto, anzi troppo, astratto. I 17 goals li vediamo rappresentati dappertutto. Per dire, anche nel mio corso universitario di Economia circolare ho dovuto indicare quattro Obiettivi di riferimento.
Manca però un monitoraggio concreto di quanto ci stiamo avvicinando o allontanando dai goal con riferimento al punto di partenza rispetto a quello di arrivo (2015-2030) e soprattutto cosa dobbiamo fare per arrivarci. Così è anche per lo spreco alimentare che, secondo l’obiettivo 12.3, dovrebbe essere dimezzato.
Le agenzie Onu stanno facendo un lavoro importante, ma gli indicatori usati per il monitoraggio sono già vecchi quando vengono pubblicati, peraltro usando metodologie diverse a seconda del Paese. Il nostro Osservatorio porta avanti dal 2013 un monitoraggio annuale con la stessa metodologia, quindi, sappiamo bene da dove siamo partiti e dove dobbiamo arrivare. E soprattutto se stiamo andando nella direzione giusta. Il che negli ultimi tempi non sta avvenendo.
In media, quest’anno, lo spreco settimanale degli italiani ammonta 617,9 grammi di cibo. L’anno scorso erano 566,3. C’è, quindi, una crescita del 9,11%. Sommando tutti gli sprechi e le perdite lungo la filiera del cibo, l’aumento su anno tocca il 40%. Quali sono le ragioni?
L’incremento dello spreco pro-capite domestico settimanale, questa è la nostra unità di misura, ha diverse spiegazioni. Voglio concentrarmi su un fattore in particolare, quello della povertà relativa. Il nostro monitoraggio dimostra che negli ultimi anni sono proprio le fasce della popolazione con il reddito più basso a sprecare più cibo. Può apparire un controsenso, ma è un fatto che la media dello spreco in questa fascia di popolazione è superiore del 27% rispetto alla media generale. Il fenomeno non è nuovo: l’anno scorso, rispetto al 2023, abbiamo registrato un incremento del 17%.
C’è un drammatico abbassamento qualitativo degli alimenti che porta ad aumentare i rifiuti alimentari incrementando lo spreco quantitativo. Inoltre, l’acquisto di alimenti poco costosi, ma di basso o bassissimo valore nutrizionale, determina un altro spreco. Si chiama metabolico, ovvero la cosiddetta malnutrizione per eccesso, si mangia troppo e male con un rilevante impatto sulla salute. Non è un caso che i più poveri siano in sovrappeso o obesi con tutte le conseguenze patologiche e i relativi costi sanitari.
Siamo davanti a un’emergenza?
Sì. E da tempo. Come ha certificato l’Istat in queste settimane il 25% della popolazione italiana è a rischio povertà, in peggioramento rispetto all’anno scorso. Le cause sono note, fra le altre: il lavoro povero, pensioni basse, immigrazione e difficoltà di integrazione, scarsa scolarizzazione, i nuclei monoparentali, la crisi economica e l’inflazione, le dipendenze …. Insomma, un quadro tanto complesso quanto allarmante.
Quindi, la causa non è solo la bassa capacità di acquisto?
No, appunto. Non è solo una questione di disponibilità economica, anche se la povertà economica significa povertà alimentare. Dai nostri dati emerge chiaramente che il 30% delle famiglie italiane ha ridotto gli acquisti alimentari, ha scelto alimenti meno nutrienti, ha diminuito la qualità del cibo acquistato e come detto, ha aumentato lo spreco rispetto alla media. Essere poveri non significa solo avere meno risorse, ma anche impoverirsi nel modo di alimentarsi. Ma c’è di più: non solo i più poveri mangiano male.
In che senso?
Nel senso che, sempre dalle nostre osservazioni, risulta che anche chi ha acceso economico al cibo non mangia così bene. Tanto che abbiamo dovuto definire questo fenomeno “impoverimento alimentare”, ovvero una condizione alimentare squilibrata di natura varia e complessa che porta a delle conseguenze negative sulla salute, l’ambiente e l’economia.
Le cause sono diverse e di natura complessa: i disturbi alimentari, le ludopatie, le fake news, il marketing, la maleducazione alimentare…. Le abbiamo raccontate in tredici storie di sopravvivenza alimentare nel libro “La spesa nel carrello degli altri. L’Italia e l’impoverimento alimentare”, con la prefazione del cardinale Matteo Zuppi. Gli italiani non mangiano così bene come sembra.
Guardando invece all’offerta, dal punto di vista degli sprechi, che ruolo hanno gli altri anelli della filiera, a partire dall’agricoltura?
Relativamente marginale. Intanto, più che di sprechi, tecnicamente si tratta di perdite, che negli anni si sono ridotte grazie anche alle innovazioni tecnologiche e all’attenzione del mondo agricolo rispetto alla sostenibilità dei processi di produzione. Idem per l’industria di trasformazione alimentare. Buona parte delle perdite del settore primario, inoltre, dipendono da fattori non facilmente governabili. Pensiamo agli eventi climatici estremi, alle malattie delle piante e degli animali e all’andamento della domanda di mercato. Discorso a parte meritano distribuzione e consumo extra-domestico.
Spesso si punta il dito contro la distribuzione, la grande distribuzione in particolare, come generatore di eccedenze. In realtà non è così osservando i numeri, ma fa impressione perché si tratta di alimenti consumabili tal quali. Non a caso, è proprio lì che si concentra il recupero a fini solidali.
Ma le disponibilità si stanno riducendo, segnale di maggiore efficienza della distribuzione. Sul fronte della ristorazione privata e pubblica, pensiamo alle mense anche quelle scolastiche dove c’è molto lavoro da fare per la semplice ragione che non esistono dati aggiornati e differenziati. Ci stiamo lavorando anche con l’app Sprecometro che rileva lo spreco anche nei ristoranti e nelle mense.
Cosa si dovrebbe fare allora per ridurre perdite, sprechi e migliorare il consumo alimentare?
Uscire dalla logica del “massimo ribasso” nell’alimentazione che porta con sé un impatto negativo su salute, ambiente ed economia. Dobbiamo ridare “valore” al cibo a partire dal farci la domanda: quanto vale davvero un alimento? Non è solo il prezzo che paghiamo al supermercato. Esiste una metodologia, il True Value of Food promossa dalla Fao, che considera costi e benefici ambientali, sociali e sanitari lungo tutta la filiera. Un chilo di carne, latte, frutta, verdura costa più del prezzo sullo scaffale. Dietro ci sono risorse naturali, lavoro, impatti sull’ambiente e sulla salute. Adottando questo approccio potremmo prendere decisioni più informate, promuovere politiche alimentari più eque e incentivare la transizione verso sistemi agricoli e alimentari più sostenibili.
Il che può portare vantaggi concreti per il produttore agricolo, trasformando la sostenibilità in un’opportunità economica e strategica. Inoltre, e lo ripeto almeno da 15 anni, dobbiamo inserire l’educazione alimentare nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dalle primarie. Un lavoro che dovremmo fare con famiglie e insegnanti, il nostro presente e futuro.
Perché la collaborazione con le associazioni degli agricoltori è importante per il vostro lavoro?
L’alleanza con Confagricoltura e con il resto del mondo produttivo permette di pensare ad una strategia condivisa sul fronte sia delle azioni da adottare, sia della comunicazione. L’agricoltura, da cui tutto nasce, deve essere protagonista nell’affermare il valore multiplo della sua azione. Soprattutto quando questa ha proprio nella qualità, nell’eccellenza, nella distintività i suoi fattori qualificanti.
Per questo insisto tanto sul metodo della “valutazione dei costi effettivi”, la traduzione del True Value of Food, per portare alla luce l’intera gamma di costi e benefici associati alla produzione in primis, ma anche alla trasformazione, distribuzione e consumo di prodotti agricoli inclusi i cosiddetti “costi e benefici nascosti” che non riflettono i prezzi di mercato. L’agricoltura di qualità come la nostra ne trarrebbe un grande beneficio, io credo.
Che giudizio ha del livello dell’azione e del dibattito pubblico sul cibo?
Penso che si debba uscire dalla trappola della retorica che afferma che siamo i più bravi, che i nostri prodotti sono i migliori, così come la dieta alimentare che seguiamo, che nel mondo tutti ci copiano. Non solo perché non è dimostrato – il caso della dieta mediterranea praticata dagli stessi italiani è emblematico: solo una piccola percentuale la pratica davvero -, ma anche perché questo tipo di comunicazione non mi pare abbia portato a dei grandi risultati, o meglio, a delle piccole e parziali vittorie che non è detto si mantengano nel lungo periodo.
Per questo credo che il nostro Paese debba essere ancora più presente sui tavoli internazionali, non solo a livello politico e diplomatico, ma anche entrando concretamente nelle metriche e nelle valutazioni tecnico-scientifiche che poi servono a prendere delle decisioni politiche. In questo senso è importante il lavoro che sta facendo il nostro ministero degli Esteri sulle food coalition, azione su vari fronti della sostenibilità agricola e alimentare, promossa e inquadrata nel Food System Summit dell’Onu.
E a livello locale cosa si può fare? Che frutti sta portando il suo lavoro con il Comune di Bologna?
Le politiche alimentari locali sono uno snodo fondamentale per garantire la sostenibilità dei sistemi agricoli. A Bologna ricopro il ruolo di consigliere speciale del sindaco per le Politiche alimentari urbane e metropolitane e come primo atto abbiamo inserito il riconoscimento del diritto al cibo (ius cibi) negli statuti del Comune e della Città Metropolitana.
Non è solo un atto formale riconoscere che tutti hanno diritto ad un’alimentazione adeguata dal punto di vista quantitativo e qualitativo, ma è molto sostanziale considerando gli strumenti che le amministrazioni locali hanno già a disposizione. Pensiamo alle mense scolastiche e all’educazione alimentare nelle scuole, ai mercati all’ingrosso e a quelli rionali, all’agricoltura urbana e periurbana, agli orti, eccetera. Il buon cibo passa anche da qui.
Qual è la sua idea di sostenibilità e di economia circolare?
Sostenibilità e circolarità sono due “aggettivazioni” che qualificano la nostra economia dandole una direzione precisa. La prima prolunga la durata nel tempo delle risorse, in particolare quelle naturali (suolo, acqua, energia), assicurando che le stesse si possano rinnovare prima di essere consumate di nuovo. La circolarità punta fin dall’inizio della filiera a garantire che questo ciclo possa continuare il più a lungo possibile.
Così il rifiuto alla fine del ciclo diventa una materia prima seconda e torna in circolo un’altra volta. Il passaggio da un’economia lineare a un’economia circolare e sostenibile credo sia la chiave per garantire la diffusione di un benessere che tenga conto degli aspetti economici, ambientali e sociali della nostra società. Un percorso che deve vedere l’agricoltura protagonista, essendo proprio la produzione agricola di per sé un modello di circolarità e sostenibilità.
L’articolo è presente sul numero di aprile 2025 di Mondo Agricolo, la rivista dell’agricoltura
Fonte: Confagricoltura